Prêt à porter a Kabul all’insegna del made in Italy: la moda femminile si sta risvegliando nella capitale afgana e a segnare il passo ci sono nomi poco conosciuti in terra patria, ma che sanno rappresentare ottimamente la eccellente creatività imprenditoriale italiana. Un nome fra tutti: Gabriella Ghidoni.

E’ lei l’italiana a capo dell’atelier Royah (“Visione”) di Kabul, in Afghanistan:  si tratta di una psicologa milanese che di queste terre di conflitto si é innamorata  e che qui ha voluto dare un bell’esempio di imprenditoria femminile italiana all’estero, una creatività che insegna la libertà.

Attraverso il progetto di Royah, infatti, Gabriella vuole dimostrare che la moda e l’imprenditoria femminile possono diventare il sinonimo di emancipazione della donna, anche in quelle regioni del mondo dove tutto questo é ancora solo un’utopia.

Oggi, nella sua Visione ci sono trenta ragazze riunite in uno dei due atelier della città, luoghi che fanno sia da scuola che laboratorio: sono lì per imparare il mestiere di stilista che qui ancora non esiste ed anche per capire che moda vuol dire libertà di creare, di lavorare, di vendere e di guadagnare. Pensate: già a gennaio 2011, le studentesse del suo corso potranno presentare la loro prima collezione!

A guidarle proprio Gabriella Ghidoni, che é arrivata in questa terra nel 2004 in qualità di psicologa impegnata in corsi per i soldati Onu a Kabul. A Kabul collabora con un sarto afgano, Shafi Jan, già “maestro” per altri venti donne.

Ma é stata questa donna lombarda ad aprire l’atelier con 2mila dollari sei anni fa, ed oggi il suo lavoro può contare sul finanziamento concesso dalla Regione Lombardia alla sua onlus Arte-Fatto.

“Le donne afgane sono lontane dallo stereotipo che le vuole sottomesse dietro un burqa. Sono toste, hanno voglia di fare. Lavorare qui permette loro di non sentirsi beneficiarie di aiuti, ma attrici del cambiamento e del proprio benessere. È un fatto di responsabilizzazione, di dignità. Il vero cambiamento è in loro, quel che facciamo noi è solo contorno”. – dice sulle pagine di dweb.repubblica.

Questo del recupero delle competenze artigianali femminili é quindi un ottimo modo per ricostruire l’identità culturale di un Paese distrutto dalle guerre: grazie a Gabriella Ghidoni, le donne afgane  hanno imparato la sartorialità dei tagli di gusto occidentale, e a cucire abiti femminili usando lo chapan, il tessuto riservato agli uomini, quasi a dichiarare una loro volontà di progresso senza dimenticare le tradizioni, come quella del ricamo afgano, uno tra i più complessi al mondo.

Pensate che per realizzare un cappotto ci vogliono dai 3 ai 7 giorni e che, finora, quello del sarto é sempre stato un mestiere maschile: “Non a caso è un uomo ad addestrare le ragazze”, dice Gabriella. “Qui non esistono cartamodelli, né scuole di taglio e cucito. Il mio sogno è creare un istituto di tailoring e portare il modello di Royah in altri centri”.

Grandi progetti nonostante le grosse difficoltà: “Nel paese l’industria tessile è inesistente, i piccoli produttori (a Chitral e Mazar-i-Sharif i migliori per le lane, a Herat per le sete) lavorano ancora a telaio, con tempi lunghissimi. Inoltre il loro concetto di “bello” è diverso dal nostro. Il mio produttore mi apprezza perché tratto gli affari in lingua dari, ma elude ogni mio invito a innovare, sperimentare: per lui, il verde è verde, e quando tento di spiegargli la differenza tra “oliva” e “acido”, ride.

Paola Perfetti

Fonte: dweb.repubblica