Neanche il tempo di riabituarci ai ritmi lavorativi, dopo le vacanze estive, che in città la vita è ripresa dinamica e attiva, brulicante di eventi, manifestazioni e mostre.

Oggi vogliamo segnalarvi la mostra curata da Elvira Dyangani Ose presso Fondazione Prada, che a Milano presenta Uneasy Dancer, dedicata all’artista americana Betye Saar.
Si tratta di una bella occasione per ammirare più di 80 opere tra installazioni, assemblage, collage e sculture creati tra il 1966 e il 2016, dal 15 settembre all’8 gennaio 2017.

La Uneasy Dancer, danzatrice incerta, è proprio lei, Betye Saar, come si autodefinisce, perché, il suo lavoro “segue il movimento di una spirale creativa ricorrendo ai concetti di passaggio, intersezione, morte e rinascita, nonché agli elementi sottostanti di razza e genere”.

Le sue opere sono incentrate su in chiaro interesse per il metafisico, ma anche la volontà di rappresentare la memoria femminile e l’identità afroamericana, presentati di volta in volta in vesti inedite.
Proprio per questa tendenza, Saar definisce la sua arte come qualcosa che “ha più a che fare con l’evoluzione che non con la rivoluzione, con la trasformazione delle coscienze e del modo di vedere i neri, non più attraverso immagini caricaturali o negative, ma come esseri umani”.

L’originalità della sua arte sta non solo nell’utilizzo di materiali di recupero sapientemente lavorati ed accostati tra loro, ma anche con l’uso di memorabilia personali e immagini dispregiative che richiamano storie negate o deformate. Una vera e propria sfida, dunque, nei confronti degli stereotipi razziali e sessisti radicati nella cultura americana.

Elvira Dyangani Ose ha così presentato l’arte di Saar: “Come osserva Elvira Dyangani Ose, “Saar confonde i confini tra arte e vita, tra piano fisico e metafisico. Il carattere spirituale della sua produzione non risiede solo nelle opere in cui trova espressione diretta il suo interesse per una pluralità di tradizioni culturali. Risiede soprattutto nell’operazione artistica che trasforma materiali comuni in nuove iconografie evocative, in suggestive narrazioni del reale capaci di coinvolgere intimamente l’osservatore”.

Tra le installazioni che maggiormente sono in grado di esprimere i cardini dell’arte di Betye Saar c’è senza dubbio The Alpha and The Omega (The Beginning and The End) (2013-16), un ambiente circolare che allude al viaggio iniziatico e all’esperienza della vita umana. Questa installazione è stata concepita in occasione della mostra e include una serie di nuovi elementi che rappresentano l’idea del tutto, nella sua circolarità.

Ci saranno anche i suoi tipici assemblaggi di immagini e oggetti inseriti in scatole o valigie, come Record for Hattie (1975) e Calling Card (1976), che assumono una dimensione performativa, anche se in miniatura. Altri assemblaggi, creati più recentemente e contenuti all’interno di gabbiette, come Domestic Life (2007) e Rhythm and Blues (2010), rappresentano una condizione fisica e metaforica di segregazione, ma anche di resistenza e sopravvivenza.
In questi lavori emerge con prepotenza il folclore americano, unisce la dimensione politica a una visione spirituale che attinge a molteplici credenze e tradizioni di origine africana, asiatica, americana ed europea.

Ma non è tutto, perché ci saranno anche una serie di strumenti di lavoro o elementi della vita domestica, assemblati in modo molto personale a fotografie o manufatti d’epoca, come accade per Mystic Window for Leo (1966), The Phrenologer’s Window (1966) e A Call to Arms (1997), tutte opera dal duplice significato, poichè abbracciano una condizione intima e autobiografica ma anche una dimensione immaginativa e fantastica.

Vera MORETTI