Che siano preparate, puntuali ed affidabili, poco importa, ed è questo il fatto grave dal momento che, quando si tratta di lavoro, dovrebbero essere questi i requisiti che più interessano.
E invece, tutto ciò passa in secondo piano, in confronto al fatto di essere mamme.
Non si tratta di “leggende metropolitane” ma dell’amara e triste verità, raccontata da tante donne che, diventate madri, si sono viste togliere lavoro e scrivania da sotto gli occhi.
A volte, sono costrette a dare le dimissioni, dopo mesi di mobbing da parte del capufficio e dei colleghi, spesso ansiosi di impossessarsi di mansioni, e stipendio, della malcapitata. Altre, invece, non appena annunciano che avranno un figlio, vengono lasciate a casa senza troppi complimenti. E nulla si può fare per avere giustizia, dal momento che, nella maggior parte dei casi, il misero contratto che univa azienda e collaboratrice era a progetto o, se più fortunata, a tempo determinato.
I dati sono allarmanti perché, secondo il Centro Donna della Cgil, le segnalazioni, da ottobre dell’anno scorso, sono state circa mille, e quasi tutte riguardavano, appunto, mobbing, demansionamenti e minacce di licenziamento dopo la fine del congedo. Congedo richiesto, in un anno, da 20mila mamme nella città di Milano e, tra queste, l’8% ha poi dato le dimissioni. Sono 1.670 donne, contro le poco più di 1.400 del 2009. Un aumento del 14 per cento.
Maria Costa, del Centro Donna della Cgil, spiega: “Fra il 2008 e il 2009 la quota di mamme dimissionarie, dopo la maternità, era diminuita. Nel 2010, invece, i numeri si sono alzati di nuovo. Soprattutto a causa della crisi”
Le madri, prima lavoratrici, e magari anche soddisfatte e stimate da superiori e colleghi, si vedono costrette a rimanere a casa, risparmiando su asilo nido e baby-sitter, certo, ma frustrate da una condizione che non hanno scelto loro.
Luigia Cassina, del Coordinamento femminile della Cisl, rincara la dose affermando: “Con la crisi è cresciuta soprattutto la richiesta di personale full time. È come se per le aziende ci fosse un’equivalenza tra presenza del personale e produttività. Con il risultato che soluzioni moderne come flessibilità degli orari, part time e telelavoro scompaiono: siamo tornati indietro di dieci anni”.
Le agevolazioni, dunque, che per qualche tempo avevano agevolato le neo mamme, per metterle in condizione di godere del proprio figlio senza però rinunciare ad un’occupazione, ora non ci sono più.
A Milano la quota di donne occupate si attesta al 58,8 per cento, contro il 73,7 per cento degli uomini. Sono 772mila le milanesi che lavorano: di queste, però, ancora poche riescono a raggiungere posizioni di rilievo in azienda.
Secondo l’ultimo Rapporto biennale sull’occupazione femminile e maschile in Lombardia, presentato in primavera da Regione e Provincia, solo il 18 per cento delle dirigenti d’azienda è “rosa”. E nel caso dei lavori a termine, sono sempre le donne a rischiare di più la perdita del posto: nel 43,8 per cento dei casi i contratti non vengono rinnovati. Nel 2007 la stessa percentuale era al 35,8.
Luigia Cassina continua: “Il problema è culturale. È come se alla donne venisse detto: vuoi diventare madre? Bene, hai fatto la tua scelta di vita. E il lavoro non può più farne parte”.
E se quel lavoro era necessario per andare avanti, soprattutto con l’arrivo di un bimbo, poco importa. Sicuramente non a quei datori di lavoro che non si fanno scrupoli a lasciare a casa donne che, oltre ad aver bisogno di un’occupazione, sono qualificate per svolgerla.
Vera Moretti