Ormai è cosa nota, e per questo non ci si fa più caso, ma, quando una donna dice di essere casalinga, la si considera disoccupata.
Purtroppo, si tratta della verità, anche se difficilmente si può sostenere che una casalinga non lavori. Considerando, infatti, tutte le ore in cui è impegnata, tra lavori domestici, pulizie, commissioni, spese, e, la maggior parte delle volte, accudimento dei figli e, in molti casi, anche dei genitori anziani, se dovesse essere previsto per lei uno stipendio, dovrebbe essere molto sostanzioso.

Una donna che decide, per sua volontà o no poco importa, di rimanere a casa, deve svolgere disparate mansioni, e farle sempre al meglio. Il problema, infatti, è che, considerando che una donna a casa viene definita disoccupata, è lei stessa che si sente in dovere di essere sempre attiva e impegnata in qualche faccenda. Poco importa se, negli uffici e in qualsiasi altro luogo di lavoro, sono previste pause e un limite di ore da svolgere.

A questo proposito, è stato da poco pubblicato un rapporto svolto da McKinsey, società internazionale di consulenza manageriale riguardante il gender gap sul posto di lavoro, che ci ha permesso di capire il valore di questa mole di lavoro non retribuito.

Ebbene, si tratta di diecimila miliardi di dollari, una somma da capogiro equivalente più o meno al Prodotto interno lordo della Cina. Ciò significa che, se tutte le donne che si occupano dei loro familiari costituissero un’unica nazione, la loro sarebbe la quarta economia più importante al mondo.

Inoltre, questa cifra riguarda solo l’aspetto fisico dell’accudimento e della cura della persona, anche se, in realtà, come ha scritto Anne-Marie Slaugher nel suo libro Unfinished Business, nella cura dei familiari emerge un’importante componente emotiva, fatta di amore ed educazione e di tante sfumature che dovrebbero essere considerate in questo calcolo.

Si tratta di una situazione che si riscontra sia nei paesi ricchi, sia nei paesi poveri, anche se in maniera diversa: se, infatti, nei primi le donne trasformano il denaro in prodotti e servizi necessari alla sussistenza e al benessere facendo la spesa, cucinando, pulendo, lavando, ordinando, nei paesi poveri le donne si sobbarcano quasi interamente l’onere di fornire i beni di prima necessità al loro nucleo familiare, trasportando acqua e legna, coltivando raccolti di sussistenza.

Per provocare un’inversione di tendenza, l’economista Diane Elson ha creato una strategia che ha un motto molto forte: “Riconoscere, ridurre e ridistribuire”.

Riconoscere l’iniquo peso che le donne si devono sobbarcare è il primo passo da compiere per risolvere la situazione. Fino a quando le statistiche economiche non terranno conto del lavoro delle donne, sarà più facile per tutti ignorare la disuguaglianza di fondo delle nostre società.

Per ridurre tempo e fatica che le donne impiegano per compire mansioni ripetitive, occorre ricorrere la tecnologia, che, nei paesi in via di sviluppo significa adottare fornelli da sostituire alla legna, ma anche cisterne comunitarie ed elettrificazione delle aree rurali. Nei paesi ricchi, invece, la rivoluzione tecnologica passa dagli elettrodomestici, che hanno avuto il merito di ridurre il lavoro manuale e regalare quel tempo risparmiato per l’accudimento di bambini ed anziani della famiglia.

Il passo più difficile è sicuramente la ridistribuzione di questa enorme fetta di lavoro non retribuito, ma necessario ogni giorno. Gli uomini, a questo proposito, hanno avuto fino ad ora un ruolo molto marginale e, quindi, andrebbero coinvolti per far provare loro sia la fatica causata da mansioni dure e ripetitive, sia la gioia dell’accudimento.

E le donne? Cosa ne faranno del tempo risparmiato? Nella maggior parte dei casi non staranno a guardare ma impiegheranno le loro risorse per avviare attività economiche, o per migliorare la loro istruzione, da mettere in pratica successivamente. Dunque, non si tratta in nessun caso di uno spreco ma, al contrario, di una nuova opportunità di guadagno e di movimento sul mercato del lavoro.

A questo punto, il rapporto McKinsey ha affrontato un aspetto importante del lavoro femminile: se le donne di tutto il mondo non dovessero sobbarcarsi la maggior parte dei lavori domestici, se non fossero costrette ad accettare posti di lavoro part-time per barcamenarsi al meglio tra l’accudimento della prole e altre responsabilità importanti, se non fossero relegate a professioni poco retribuite, il Pil globale crescerebbe di una cifra impressionante, ben 28mila miliardi di dollari, pari all’economia statunitense e a quella cinese considerate insieme.

E si tratta sempre e comunque di dati fuorvianti, perché occorrerebbe anche fare una piccola rivoluzione nelle stanze dei bottoni, presiedute, ancora oggi, da una stragrande maggioranza di uomini.

Vera MORETTI