Filippo La Mantia, chef siciliano di fama internazionale, dal suo ristorante romano dispensa opinioni, consigli e tendenze gustose quanto le leccornie che lo hanno reso uno dei cuochi italiani più rinomati nel mondo.

Quando sento parlare di cibo km zero, mi rendo conto che probabilmente non sono il soggetto più idoneo per sposare certi concetti. Sono nato a Palermo, in una regione dove il cibo è fondamentale, dove il mercato è alla base di tutto e dove il pescatore ha un valore altissimo.

Diciamoci le cose onestamente: se abito in una grande metropoli, Roma ad esempio, e ho un ristorante in centro, come faccio a parlare di cibo a km zero? Potrei parlarne solo ed esclusivamente nel caso in cui avessi un orto, una vasca da cui pesco o maiali da macellare dietro l’angolo. Oppure la definizione avrebbe un senso se questo fantomatico cibo a km zero venisse utilizzato da un ristorante che sta in campagna, dove effettivamente la coltivazione dell’ortofrutta, l’allevamento dell’animale o del pesce avviene in loco.

La verità è che il nostro problema è che, purtroppo, ormai viviamo di slogan: green, dieta a zona, dieta vegana e così via discorrendo.

Teoricamente io che, lavoro a Roma, potrei avere il pesce molto più fresco rispetto a chi millanta di averlo acquistato km zero. Siamo proprio sicuri che quel pesce non sia stato venduto da un pescatore che l’ha conservato precedentemente in frigorifero?

Non dimentichiamoci, poi, che il pesce più fresco d’Italia si è sempre mangiato a Milano, perché fondamentalmente è il mercato che comanda. Se il ristoratore paga bene il pescatore, quest’ultimo non si crea problemi a farglielo avere alla velocità della luce, anche se si trova a 500 km di distanza.

Non ha importanza se il prodotto arriva da Pescara o da Mazzara del Vallo: il pescatore, di qualunque città sia, pesca durante la notte, ritorna all’alba, mette il pescato nelle cassette con il ghiaccio, va in aeroporto a Birgi, a Palermo o in qualunque altro aeroporto, lo imbarca, ed esattamente dopo 3 ore il pesce giunge a destinazione.

A me poi piace acquistare direttamente dal furgone del pescivendolo. Guardo quello che ha e acquisto. Non ho obblighi di carta e sinceramente non mi importa nulla di comprare il pesce di allevamento.

Ormai è talmente tanta la voglia di avere qualunque alimento sempre a disposizione che sono nati gli allevamenti, i congelati a bordo e così via dicendo. Ma quella non è cucina, è business. Serve per servire il mercato mondiale.
Io ristoratore, invece, compro quello che hanno pescato. Se non sono stati cosi fortunati da fare incetta di pesce, perché magari era cattivo tempo, non ho alcun problema a non mettere il pesce in carta.

Consentitemi, fondamentalmente, il km zero è un paradosso.

 

Filippo La Mantia – chef del ristorante dello storico Hotel Majestic di via Veneto a Roma